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Il dolore che fa bene

Il nostro redattore è convinto che se un massaggio non è doloroso non serve a niente. E parla per esperienza.

È arrivato il momento che in questa rubrica si affronti l’argomento massaggi, il metodo di rilassamento per eccellenza. Già solo nel luogo in cui vivo, una città svizzera di dimensioni medio-grandi, dispongo di una varietà pressoché illimitata: si va dal massaggio di riflessologia plantare al massaggio del tessuto connettivo, passando per tipologie meno note come il tibetano o il lomi lomi, fino ad arrivare ai più esotici massaggi al miele, con pietre di giada o detox.

La ragione di una tale popolarità di queste pratiche è presto detta: i massaggi sono eccezionali. Non bisogna far altro che sdraiarsi, lasciarsi cospargere di olio profumato e sottoporsi a una delicata tecnica di impastamento con un sottofondo di flauto shakuhachi. Tutto a spese della cassa malati, per giunta. Cosa si potrebbe volere di più?

Eppure devo confessare una cosa: tutto questo non esercita su di me alcun fascino. Non perché non sia un patito dei flauti di bambù giapponesi o perché abbia qualcosa contro l’olio di jojoba. A dirla tutta, ho persino un’assicurazione complementare. No, quello che mi manca in Svizzera è il dolore. Questa è una cosa da tenere a mente: un massaggio deve fare male. (Continua a leggere qui di seguito...)

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You ok, sir?

Questa lezione l’ho appresa da Wei, masseur di Shanghai, dove ho vissuto per qualche tempo frequentando regolarmente un centro massaggi molto vicino a dove abitavo. Wei era 50 centimetri più basso di me e non arrivava a pesare 60 chili, ma già in occasione del nostro primo incontro mi prese per la nuca come fa una leonessa con i suoi cuccioli e iniziò a massaggiare come se la mia colonna vertebrale dovesse andare in pezzi.

Poi con le dita affusolate percorse tutta la mia colonna vertebrale dall’alto verso il basso, continuando con inquietante precisione ad applicare il proprio peso, che avrei detto pari a 148 chili, esattamente dove faceva più male. «You ok, Sir?», mi chiese. «Yes, of course, no problem, thank you», balbettai. Cos’altro avrei dovuto rispondere? Non potevo certo cominciare a piagnucolare e implorare pietà dopo soli cinque minuti di perforamento con i pollici.

E così Wei si accanì sulla mia carne per altri 65 minuti, afferrò interi muscoli in un colpo solo, premendo e schiacciando, poi mi prese sotto le scapole con tutta la mano e torse le mie braccia dietro la schiena tirando, spingendo, scuotendo, battendo e sfregando fino a farmi venire le lacrime. Glutei, gambe, piedi, viso e per concludere ancora nuca e spalle. Poi la tortura ebbe fine e il minuto e cortese Wei si congedò. In quel momento mi sentii... a meraviglia. Poiché il massaggio cinese tradizionale si concentra sui canali energetici, tutto il mio corpo, benché piacevolmente rilassato, sembrava pervaso da una sorta di elettricità. Percepivo i miei movimenti con maggiore intensità, mi sentivo calmo e tuttavia pieno di energie.

E allora capii che per sentirsi così bisogna soffrire.

Sarà un mio pregiudizio, ma i massaggi detox o al miele non mi sembrano esperienze di particolare sofferenza. Forse una volta o l’altra dovrei sperimentare una di queste proposte. Ma guai se non risuona il flauto di bambù!

Ricerca Massaggio

di Lukas Hadorn,

pubblicato in data 01.02.2018, modificato in data 25.04.2022


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